
Negli ultimi mesi la Commissione Europea ha cominciato una vera battaglia contro l’euroscetticismo e la formazione di governi autoritari o “illiberali” all’interno dell’Unione. L’obiettivo sono Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, i quattro paesi euroscettici – ma pragmatici – del Gruppo Visengrad.
Viktor Orbán, Robert Fico, Miloš Zeman, Jarosław Kaczyński sono rispettivamente i Primi Ministri dell’Ungheria e della Slovacchia, il Presidente della Repubblica Ceca e il leader del partito Diritto e Giustizia (PiS), al governo in Polonia.
Le loro posizioni in politica estera possono distanziarsi (Repubblica Ceca e Slovacchia hanno posizioni pro-Russia, al contrario di Ungheria e Polonia) ed i quattro appartengono a famiglie politiche diverse (socialista Zeman e Fico, di centro-destra Orbán, nazionalista Kaczyński), ma tutti hanno in comune una visione negativa dell’Islam, della politica pro-rifugiati e, in generale, della centralità politica dell’Unione. Insieme compongono il Gruppo Visengrad (noto anche come Visengrad 4) e, congiuntamente ai populisti dei paesi occidentali, rappresentano il principale pericolo interno per Bruxelles, ma con una differenza: nessuno di loro intende abbandonare la UE.
“Il Gruppo Visengrad permette a tre piccole nazioni di colpire ben al di sopra del loro peso [politico].”
Euroscettici, ma “pragmatici” e selettivi. Al centro delle critiche dei Visengrad 4 ci sarebbe l’idea stessa dell’Unione, vista come un “mostro” centralizzato ed iper-burocratico che minaccia “l’identità nazionale dei singoli paesi”. La polemica sull’accoglienza ai rifugiati è servita solo a fomentare le derive nazionalistiche e sovraniste dei quattro, esattamente come è stata usata dai populisti francesi, italiani, olandesi e tedeschi. Al contrario di quest’ultimi, però, i Visengrad 4 non si auspicano l’uscita dall’Euro (adottato solo dalla Slovacchia) o dall’Unione, ma il suo alleggerimento, limitandone l’influenza e conservandone i vantaggi economici.
La loro visione politica è dettata dal pragmatismo economico e l’opportunismo politico: ricondurre il potere politico ai singoli governi, l’unica difesa dell’identità nazionale “messa in crisi” dalle politiche di Bruxelles. Al tempo stesso intendono continuare ad usufruire dei benefici economici derivanti dall’appartenenza alla UE, ovvero la partecipazione al Mercato Comune, a Schengen e, soprattutto, ai fondi strutturali.

La questione ungherese. Il caso esemplare, e salito all’onore delle cronache negli ultimi mesi, è quello dell’Ungheria di Viktor Orbán, il capofila della politica anti-rifugiati in Europa e delle “democrazie illiberali”, da lui considerate “l’unica risposta efficiente alle sfide del modo globalizzato”. L’Europa, per Orbán, commette “errori gravissimi” sui migranti “islamici”, il che “costringe” il governo ungherese a prendere decisione drastiche: campi di detenzione, barriere di filo spinato, guardie di frontiera paramilitari e la non accettazione delle quote sui migranti.
La polemica anti-migranti – da lui interpretata in chiave di difesa dei “valori europei” – ha permesso ad Orbán di consolidare il proprio potere, costruendo, de facto, una repubblica autoritaria nel cuore del continente. Proprio la campagna contro “i nemici dell’identità ungherese” ha permesso al governo di adottare leggi più restrittive dal punto di vista delle libertà civili e modificare la Costituzione, limitando il potere della Corte Costituzionale, oltre a spostare i media sotto il controllo governativo.
“Sarebbe importante chiarire se veramente prendiamo soldi dall’Europa. Dopo 40 anni di comunismo […] abbiamo aperto il nostro mercato all’Occidente […]. Ci danno l’illusione di poter competere con noi, mentre loro guadagnano. I soldi che riceviamo servono solo per controbilanciare questo sfruttamento.”
In questo quadro, l’Europa – assieme al finanziere di origini ungheresi George Soros – rappresenta il “capro espiatorio” dei fallimenti del governo, il “nemico del popolo ungherese” che con le sue politiche ne vorrebbe la sparizione. Senonché proprio l’Europa . nonostante il diniego dello stesso Orban che considera “irrisori” i fondi europei – permetterebbe all’economia del suo paese di crescere: secondo le cifre ufficiali, circa il 5-6% del PIL ungherese sarebbe sostenuto dai fondi strutturali europei.

Il caso Polonia. Quanto detto per l’Ungheria vale anche per la Polonia. La vittoria del PiS e della sua piattaforma nazionalista nel novembre 2016, ha riportato al centro della scena politica l’ex-premier Jarosław Kaczyński. Egli non ricopre nessun ruolo di governo, ma la sua influenza sul governo di Beata Szydło è innegabile. Kaczyński è un forte ammiratore di Orbán e, come il collega ungherese, usa la “questione rifugiati” come grimaldello per rafforzare la propria politica interna a difesa dei “valori cattolici della famiglia” rispetto al multiculturalismo europeo.
Solo lo stato nazionale, dice Kaczyński, puo “garantire la democrazia e la libertà”. Tradotto nei fatti, questo ha significato, a Varsavia come a Budapest, limitare la libertà dei media e dei poteri della Corte Costituzionale. Tutto questo sfruttando la crescita economica al 1,6%,, su cui gli oltre 80 miliardi di Euro di fondi strutturali stanziati dall’Europa per il periodo 2013-2020 contano per lo 0,4%.


Repubblica Ceca e Slovacchia. Una svolta autoritaria, sulla falsariga di Orbán e Kaczyński, non si è ancora materializzata né in Repubblica Ceca né in Slovacchia, ma entrambi i paesi si sono schierati con Polonia e Ungheria contro le quote migranti. Pur se strettamente legata economicamente alla Germania, Praga non ha mai nascosto il suo euroscetticismo, diventato ancora più rilevante con l’apertura della crisi dei rifugiati.
In quell’occasione, il Presidente Milos Zeman – per ironia fondatore del Partito dei Diritti Civili – ha incitato i cittadini cechi ad “armarsi” per proteggersi da eventuali attacchi da parte di terroristi islamici, in quello che potrebbe diventare un “super-Olocausto“. Invece di accettare “islamici” in Repubblica Ceca sarebbe “stabilirli in qualche isola greca disabitata” come modo alternativo per “saldare il gran debito pubblico di Atene”.
“La Grecia è piena di isole disabitate e ha un gra debito pubblico. Perché non mettiamo lì i rifugiati? Potrebbe servire per ripagare il debito. ”
Su questo gli fa eco il Primo Ministro slovacco Robert Fico ed il suo governo socialdemocratico, per cui Bratislava sarebbe pronta ad accettare 30-40.000 rifugiati, ma solo se questi fossero “cristiani”, i “musulmani semplicemente non potrebbero integrarsi nella cultura e nella natura dello stato slovacco”. Repubblica Ceca e Slovacchia si differenziano all’interno dei Visengrad 4 per la propria tendenza pro-Russia e l’ammirazione dei propri leader per Vladimir Putin, ma, come Ungheria e Polonia, rimangono in Europa per un’unica ragione: i finanziamenti europei.
Questi ammontano a 24 miliardi in sette anni per la Repubblica Ceca e 15 per la Slovacchia. Come ammette Milos Zeman: “rimaniamo in Europa per una sola ragione, ovvero soldi, soldi e soldi”.

La risposta dell’Unione Europea. Pur producendo divisioni, la Brexit ha rappresentato per i Visengrad 4 una vittoria di immagine. Se la potente Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’Unione Europea, come contestare le critiche mosse dagli euroscettici “pragmatici” del blocco orientale? Eppure proprio la Brexit potrebbe diventare la causa principale della crisi dei paesi del Visengrad 4.
In sostanza, molti paesi membri, soprattutto Francia e Germania, sono stanchi delle forzature politiche dei quattro che, come sostiene l’europarlamentare ungherese Gyorgy Schopflin, “permettono a tre piccoli paesi di valere in Europa più del loro peso relativo”. Questo soprattutto se i quattro paesi in questione accettano i finanziamenti europei, ma non i suoi “valori fondanti” in materia di diritti e cooperazione, come ha recentemente affermato il liberale europeo Guy Verhofstadt.
“Lei ha firmato, come i suoi predecessori, la carta dei valori europei […], invece volete solo i nostri soldi, ma non i nostri valori.”
La critica nei confronti dei quattro è montata negli ultimi mesi non solo dai Liberali, ma anche dai Popolari e Socialisti, alle cui famiglie appartengono il partito Fidesz di Orban ed i partiti di Fico e Zeman. Grazie a quest’appoggio, la Commissione ed il Parlamento Europeo si sono mossi negli ultimi mesi contro l’Ungheria e la Polonia, accusando i rispettivi governi di violare i diritti democratici basilari e di tendere “alla discriminazione” e al razzismo.
A segnalare il cambio di direzione dell’Unione, quelli che sarebbero stati prima della Brexit dei semplici richiami sono diventati processi d’accusa concreti, puntando proprio sui finanziamenti europei ed accompagnati dalla minaccia di invocare l’articolo 7 del Trattato di Lisbona, ovvero la sospensione dei singoli paesi dai processi di voto interni all’Unione.
Come per le trattative per la Brexit, la messa in stato di accusa dei governi ungherese e polacco ha lo scopo di evitare l’effetto contagio in Romania e Bulgaria, ovvero i paesi i cui nuovi governi, dalle tendenze nazionaliste ed euroscettiche, hanno chiesto di entrare nel Gruppo Visengrad.
Un altro capitolo del conflitto fra integrazione europea e nazionalismi.
Per approfondimenti:
– il conflitto fra Orban e Europa: POLITICO
– i fondi strutturali europei in Ungheria: ICE – Agenzia per la promozione all’estero delle imprese italiane (PDF)
– l’importanza dei fondi strutturali europei in Polonia: Commissione Europea
– la tradizionale opposizione della Repubblica Ceca verso l’Islam: EuropeNow
– I fondi europei della Repubblica Ceca: Commissione Europea (PDF)
– sull’attuale crisi di governo in Repubblica Ceca, e su come questa non cambi la posizione del governo: il Post
– il problema dell’identità nazionale e dell’integrazione europea: The Economist
– il problema dell’identità slovacca e le posizione nazionalistiche di Robert Fico: CEE Indentity
– la riforma dell’Unione Europea in relazione all’euroscetticismo del blocco orientale: POLITICO